CLAUDIO – La storia straordinaria del mio trapianto di polmoni
Compivo 42 anni quando mi hanno detto che avevo la fibrosi cistica, che questa era una malattia genetica che non perdona. E che era un miracolo essere arrivato alla mia età vivo, senza prendere coscienza della malattia e soprattutto senza essermi mai curato.
Era quella dunque la bestia nera che da quando ero ragazzo, fin dal liceo, mi faceva tossire e notare per questo da tutti.
E da qualche anno mi toglieva il fiato, sempre più, fino a rendermi cosciente di essere ormai invalido e negarmi una vita normale.
Faticare per ogni piccolo gesto quotidiano, a questo mi ero abituato; persino fare pochi gradini, una passeggiata con il mio cane, lavarmi i denti, mangiare, erano diventate imprese tragicamente complicate.
La mancanza di Fiato, d’Aria, è quella cosa terribile che accomuna tutte le bestie nere che ho potuto conoscere nel mio percorso in ospedale, insieme alle persone che se le portavano dentro. Amici cari ed indimenticabili.
Fibrosi Cistica, Fibrosi Polmonare Idiopatica, Enfisema, Broncopneumopatia cronica ostruttiva, Ipertensione Polmonare, LAM ( linfangioleiomiomatosi), solo per citare le più gravi malattie polmonari invalidanti.
Il punto di arrivo di tutte queste malattie è la dispnea grave, fino alla morte.
Sembra impossibile a dirsi, ma fino a quel settembre del 1998, quando dal pronto soccorso finii ricoverato in pneumologia, non ero mai stato ricoverato in un ospedale. Niente appendicite, tonsille, fratture, tutte quelle cose che ti costringono a finirci da ragazzo almeno una volta.
Ci sono rimasto per quattro mesi al S. Luigi di Orbassano, vicino Torino (l’”Ospedale dei Polmoni” viene chiamato dai torinesi, in quanto nel dopoguerra ospitava il Sanatorio, dove si curavano i malati di tubercolosi), senza miglioramenti e senza più immaginarmi una vita, fino a quando mi hanno parlato del TRAPIANTO.
Io non credevo davvero che si potessero trapiantare i polmoni. Sembra impossibile, con i mezzi di oggi, una tale disinformazione. Ma era il 1998 e non c’erano social network, non usavo internet, non frequentavo gli ospedali ed al massimo sapevo dei trapianti di cuore, fegato, reni, come tutti.
Il Trapianto, o qualcosa che ci somigliasse, lo immaginavo la notte tra i miei incubi terribili senza sonno, emorragie polmonari con emottisi, disperazione.
In verità era la speranza indicibile che esistesse un sistema per estirparmi quei polmoni, ormai tragicamente distrutti, e mettermene un paio nuovi. Ma temevo di chiedere una cosa impossibile, non osavo neppure parlarne ai medici, temendone la risposta.
In realtà ero ormai rassegnato, non credevo di poter più tornare a casa; vedevo l’ospedale, il letto, i medici che venivano a controllarmi tutte le mattine, come l’unico rifugio, fino ad una fine. Sentivo che non sarei mai uscito da lì in piedi, per non dire vivo. Questa certezza era dentro di me; ma la leggevo anche negli occhi delle persone, parenti e amici, colleghi, che venivano a trovarmi. Nei loro sguardi c’era la stessa espressione, la stessa fuga degli occhi verso la porta di uscita, che abbiamo quando andiamo a porgere l’ultimo saluto in una camera mortuaria.
Insomma avevo la netta sensazione che non solo non avrei mai più avuto una vita normale, ma che non avrei rivisto più casa, il mio cane, il mio paese natale, le mie care abitudini, il mio lavoro ed i colleghi. Un concerto dei Pooh ed uno scudetto dell’Inter, le mie passioni di sempre. Già avevo dovuto sospendere, forse lasciare per sempre, il mio lavoro di funzionario vendite, sempre in giro per tutto il nord-ovest d’Italia con l’auto aziendale. Che poi viaggiare seduto in auto era rimasta la cosa che mi faceva sentire ancora normale.
Mia moglie veniva a trovarmi tre volte la settimana, dopo il lavoro, per portarmi i cambi di indumenti ed aiutarmi nell’igiene personale, per una doccia una volta la settimana, con grande fatica e con la bombola dell’ossigeno dentro il bagno a consentirmi movimenti minimi.
Non era più una vita ma un’agonia.
Fino a quel giorno di novembre, quando la dottoressa Barbara, del mio reparto di fibrosi cistica, venne a dirmi che un medico dell’Ospedale Molinette, il più grande di Torino e della regione, voleva vedermi.
Mi portò l’infermiera, dal mio letto lungo tutto il corridoio principale, spingendo la carrozzina con sopra i miei 50 kg. di ossa per 184 cm. di altezza. Fino alla stanza con la scrivania dove mi aspettava il Primario di Pneumologia delle Molinette, Sergio il suo nome proprio. Per un gioco di lettere il suo nome poteva associarsi al suo modo di fare: Serio.
La prima cosa che mi disse quell’uomo di corporatura esile e distinto, con gli occhialetti rotondi e dorati, dopo i primi convenevoli fu: “ Sa che a Torino facciamo i trapianti di polmoni?”.
Ecco. Quella fu la parola magica, la molla, il propellente. Per la prima volta intravedevo una luce in fondo al tunnel, e me la mostrava quel medico con voce sommessa e i toni così garbati.
Di colpo il mio corpo inerme si destò, le membra rilasciate ed irrigidite da mesi di letto provarono un fremito e nuova energia. Mi raddrizzai sulla sedia e mi mossi col busto verso la scrivania dietro la quale sedeva il medico. “No non sapevo, ma sono felice di saperlo dottore!”. Nessuna paura, nessun trauma mi attraversò. Solo tanta voglia di correre incontro a quella speranza.
Da quel giorno iniziò il percorso verso una nuova vita. Ma non mi riferisco a certezze, a soluzioni facili e scontate.
Parlo di Speranza, di Stimoli, di quella Luce in fondo al Tunnel, che ora intravvedevo! Ed io volevo percorrere la parte rimanente di buio fino al suo sbocco. Senza esitazioni e senza paura.
E cosa avevo da perdere? Non avevo più una vita, non potevo camminare senza l’ossigeno portatile ( ed anche con quello faticavo), non potevo progettare un futuro, un viaggio, nemmeno una gita. Potevo solo sperare di rimanere vivo e sofferente, fin quando l’ossigeno mi fosse bastato…
Decisi di puntare dritto all’obiettivo e quella divenne la mia ragione di vita, mi ridiede la voglia di immaginare, progettare, sognare.
Un mese di esami e cure specifiche, per prepararmi ed essere pronto in caso di chiamata. Poi finalmente a casa, in ossigenoterapia ma con fiducia ed energie nuove. Ora il mio ospedale di riferimento era quello dove facevano i trapianti di polmone, il grande policlinico Molinette.
Conobbi il chirurgo, Maurizio, un uomo davvero straordinario quanto improbabile, almeno a vederlo. Forse veniva dalla sala operatoria, era un po’ stravolto, discinto e con il camice aperto sul petto nudo, maniche arrotolate sul gomito… visto il contesto lo associai ad un macellaio! Fu gentilissimo e chiaro nel raccontare a me e mia moglie che eseguiva trapianti di polmone da sei anni, con buoni risultati. Dissi tra me, lanciando uno sguardo a mia moglie che pareva altrettanto interdetta, “questo è l’uomo che deciderà della mia vita”…?
Poi ebbi un colloquio a quattro occhi con lo psicologo, che doveva stabilire la mia idoneità ad una prova tanto eccezionale, quasi impensabile fino a poco tempo prima. Ero pronto per ricevere i polmoni di un donatore sconosciuto e svegliarmi in loro compagnia?
L’uomo anziano, ma imponente in altezza e di grande esperienza (assomigliava un po’ a Christopher Lee, l’attore che impersonava il più celebre Dracula….) me lo chiese ; e mi chiese anche perché volevo fare il trapianto. “Perché?” risposi “Perché voglio ritornare a vivere fuori dall’ospedale, a camminare, viaggiare, lavorare, guidare la mia macchina nuova che mi aspetta in garage”. “Va bene” mi sorrise congedandosi ed elevandosi in tutta la sua altezza, facendomi sentire piccolo piccolo nella mia carrozzina.
Era il timbro per il mio biglietto di viaggio. Il viaggio fuori dal tunnel, verso l’avventura. Ora sembrava meno Dracula e più Babbo Natale-
Poi l’ingresso in Lista di Attesa, il 1 gennaio 1999. Il giorno dopo mi recai in ospedale per la firma. Anno nuovo vita nuova si dice. E così è stato per me.
Il 25 gennaio di quell’anno ero a casa, in una fredda giornata di sole. Stavo meglio del solito quel giorno, mi era tornato un po’ di appetito, avevo meno muco del solito in gola e mi ero fatto cucinare conchiglie al sugo con piselli, uno dei miei primi preferiti. Volevo uscire con la mia macchina nuova, una Lancia Dedra grigio azzurro ritirata dal concessionario e da allora chiusa in garage. Allo scopo avevo caricato lo stroller dell’ossigeno portatile per la “passeggiata” pomeridiana.
Il telefono squillò, rispose mia moglie. Subito mi guardò confusa e capii.
Era Maurizio, il chirurgo. “Mi passi suo marito signora”. Attimi di tumulto in petto, ma non era il catarro stavolta. “Claudio abbiamo due polmoni per te; così belli non me ne sono capitati mai credimi. Allora te la senti? Io fossi in te li prenderei al volo … allora?!” Andai.
Avevo pensato tante volte a quel momento, senza nessuna paura, perché era la porta verso l’unica possibilità di rinascita per la mia vita. Non avevo nulla da perdere e tutto da guadagnare. Ma durante quel viaggio in auto di 45 minuti verso il mio destino, credetemi mi assalirono i dubbi e qualche timore. Mi resi conto di quanto grande era la cosa che mi aspettava.
Poi però pensai alla mia vita da ammalato, all’ossigeno, ai tubicini nel naso ed alla bombola sempre accanto a me, alla tosse, al muco che a volte mi soffocava. Ai flotti di sangue che espellevo con terrore.
E pensavo a quella splendida giornata di sole, al cielo azzurro e terso di quel pomeriggio; agli uomini ed alle donne che si godevano il Parco del Valentino mentre lo affiancavo; a un bacio rubato, alla corsa di un bambino e di un cane; ai ponti sul Po ed all’acqua che fluiva leggera come una vita felice; alle persone che uscivano dal bar nell’ora del caffè. Io rivolevo tutto questo.
Entrai in ospedale deciso, tra i sorrisi, le pacche sulle spalle e le frasi di incoraggiamento degli infermieri. Mi prepararono per la sala operatoria, poi il corteo verso il quarto piano e le sale operatorie, tra corridoi ed ascensore. Sdraiato sulla lettiga sotto la coperta guardavo in alto i soffitti, i volti della gente e della vita che mi passavano accanto. Sentivo la brezza proveniente dalle uscite che mi sfiorava e pensavo che era bello starci tra la gente, l’aria, i rumori ed i sapori della vita. Sì ci dovevo tornare tra la gente. E camminare, correre, respirare tra loro, nella più straordinaria avventura che è la normalità della VITA.
Mi addormentai con quel pensiero e con una preghiera al mio santo, sotto le luci ovattate ed i volti mascherati con gli occhi sorridenti degli anestesisti.
Seppi poi che il mio DONATORE aveva 39 anni, che era di Firenze o giù di lì, che era caduto accidentalmente da una scala. Non ho mai saputo il suo nome. Né se a decidere sia stato lui attraverso una volontà espressa in vita, oppure una moglie, un genitore, un fratello. So solo che gli devo la vita, a lui e a chi ha deciso, nel dolore più terribile che l’anima debba sopportare, di destinare ogni parte del suo corpo a salvare altre vite umane.
Nel momento in cui scrivo, saranno 17 anni a breve che vivo grazie a quel DONO. E assaporo senza più paura la mia VITA STRAORDINARIAMENTE ORDINARIA, anche se frutto di un evento davvero unico e straordinario. Non ho più paura, perché qualsiasi cosa possa accadere ho vissuto e goduto anni, mesi, giorni, attimi, che non avrei mai avuto. Ho conosciuto persone, storie, anime speciali, che mi hanno arricchito e migliorato. Sono stato fortunato e ora sono pronto a qualsiasi cosa il destino vorrà riservarmi.
HO SCRITTO LA MIA STORIA e la rendo pubblica soprattutto per chi sta aspettando un trapianto, o addirittura fosse indeciso se farlo o meno. Non abbiate nessuna paura, perché si può davvero RINASCERE, nel senso più ampio del termine. Se i medici ve l’hanno proposto è perché la vostra aspettativa di vita si sta riducendo pericolosamente e perché il Trapianto è l’unica alternativa ad una vita di malattia e sofferenza.
Mi rivolgo poi a tutti, proprio a tutti: MANIFESTATE IN VITA in vita la vostra volontà a donare gli organi, senza pensare necessariamente che la morte sia dietro l’angolo! Ma pensate che quando noi stessi, o per un nostro caro, dovessimo incontrare il nostro destino all’improvviso, per qualsiasi evento o volontà misteriosa, possiamo trasformare quel momento in SPERANZA, MIRACOLO, RINASCITA.
E quella VITA che piangeremo persa, sarà stata solamente TRASFORMATA, come amava sempre dire una mia carissima amica.
0 Comments